Attimi da imMORTalare
Scatti di paesaggi, viste mozzafiato, splendidi panorami, tramonti sulla spiaggia, persone sorridenti, bambini che giocano, animali spassosi, cibi e piatti invitanti…questi sono i soggetti che scegliamo di fotografare e che postiamo di più sui nostri social o esponiamo nelle nostre case.
Le foto che mostriamo tendono sempre a rappresentare le cose belle della nostra vita, ritraggono quei momenti indimenticabili, speciali, quelle giornate e quegli eventi meravigliosi; feste, compleanni, matrimoni, spettacoli teatrali, concerti, musei, opere d’arte, tutto ciò che vogliamo faccia per sempre parte della nostra memoria, e far sì che quegli attimi così belli rimangano eterni.
Vogliamo ricordare solo le cose belle. Raramente, se non guardando un telegiornale o dei documentari, ci imbatteremo in fotografie che, più che gioia, infondono tristezza o timore.
Se facessimo però un salto nel passato e precisamente ci ritrovassimo catapultati nella Spagna o nell’Inghilterra della prima metà del XIX secolo, le cose ci apparirebbero decisamente diverse.
In questi due Paesi, infatti, era usanza comune ricorrere alla fotografia post mortem, consistente nel ritrarre i propri cari subito dopo la morte, consuetudine ignorata quasi del tutto in Italia.
Questo tipo di attività, inizialmente, era delegata ai ritrattisti per poi essere sostituita, con l’avvento della dagherrotipia, dalle fotografie.
A quei tempi, le condizioni igienico-sanitarie erano insufficienti e inadeguate e, pertanto, la mortalità era molto diffusa, soprattutto quella infantile.
Molto spesso i bambini morivano improvvisamente e, il più delle volte, le famiglie non avevano neanche avuto il tempo o la possibilità di avergli fatto fare una foto in vita. Un modo per ricordarli era quello di rivolgersi ad un fotografo professionista per immortalare l’immagine del caro defunto.
Il fotografo, di norma, veniva chiamato ad effettuare la ripresa fotografica nella casa del morto.
Inizialmente, del soggetto in questione, veniva fotografato solo la parte superiore, il viso o il busto. Poi si passò ad una rappresentazione per intero, steso o semi steso, su un letto o su una poltrona, con gli occhi chiusi, quasi come se stesse riposando, in uno stato di serenità.
Successivamente, i morti verranno fotografati come se fossero ancora in vita, seduti, su divani, vicino a scrivanie e accanto a parenti ancora vivi simulando le azioni quotidiane, con gli occhi o aperti o dipinti sulle palpebre chiuse o aggiunti in un secondo momento sulla stampa.
I bambini venivano rappresentati sulle gambe dei genitori o nelle culle; i fratelli e le sorelle e i mariti e le mogli venivano di solito raffigurati tenendosi per mano, ad indicare il forte legame che avevano avuto in vita.
Con il tempo questa consuetudine sarà pian piano abbandonata e sostituita da foto che raffigureranno i defunti nelle loro bare.
La diffusione della fotografia post mortem proseguì fino agli anni quaranta del Novecento per poi essere del tutto abbandonata.
Seppur da molti può essere considerata come qualcosa di tetro e macabro, perché estranea a quelle che sono le nostre tradizioni, la pratica della fotografia post mortem era un modo per ricordare i propri cari, per immortalare un attimo, un ultimo momento insieme prima di lasciar andare per sempre le persone care, una sorta di legame latente tra il mondo reale e l’aldilà.

Articolo scritto da: Simona Signoriello