Il viaggio attraverso le allucinazioni della droga uscito dalla penna di Philip K. Dick esprime una carica esistenziale che contiene un elemento di fatalismo, quasi di rassegnazione: il drogato, ideale fratello minore del malato mentale, si aggira per le strade del mondo portando la pesante croce di dolore che accomuna tutti gli esseri umani. Lo stesso autore si è trovato a confrontarsi con questo demone, a causa dell’intima conoscenza che ha avuto con la cultura della droga durante uno dei periodi più complicati della sua vita negli anni Settanta. Porta e presenta un mondo che in qualche maniera aveva conosciuto e con cui si era scontrato: quello della dipendenza, quella dipendenza che porta all’annientamento della psiche.
A tratti l’impianto narrativo ricorda molto 1984 di George Orwell, perché sottolinea l’inevitabile schizofrenia a cui si abbandona chi si sottomette al potere imperante e ai suoi rituali, ma nello stesso tempo lo odia segretamente e vorrebbe annientarlo (come succede appunto al Winston Smith di Orwell), e perché riaccompagna il suo eroe fino alla fase terminale di una malinconica “rieducazione”, che sia attuata in una camera delle torture o in una specie di clinica per drogati. Entrambi i protagonisti delle storie ritornano ad essere delle marionette del sistema totalitario che controlla la realtà. E ancora Dick, come in molte altre sue opere precedenti ad esempio Noi marziani, ma in maniera talmente intelligente, profonda e lungimirante da essere quasi figlia della realtà di oggi, affronta il tema del “doppio” e della crisi dell’identità. Questa riflessione viene portata dal romanzo alle conseguenze estreme e paradossali di una operazione di spionaggio speculare, in cui è coinvolto il poliziotto dell’anti-narcotici Fred e lo spacciatore Bob Arctor. Con questa ambigua coppia l’autore costringerà sé stesso e il lettore a porsi davanti al quesito che da tempo immemore tormenta l’uomo: chi sono io?
Attraversa la crisi di identità, l’illusorio costrutto sociale che ormai impone il sistema che ci circonda, la stessa forza di polizia all’interno del romanzo fornisce ai singoli agenti questa tuta disindividuante che: “[…]proiettava ogni sorta concepibile di colore di occhi e di capelli, di fattezze e tipo di naso, di conformazione della dentatura, di configurazione ossea del viso…allora l’intera sottilissima membrana prendeva in un nanosecondo qualsiasi caratteristica le venisse proiettata, per passare immediatamente alla successiva. […] Pertanto, chi avesse indossato una tuta disindividuante sarebbe diventato un Signor Ciascuno.” Questa tutto ovviamente camuffa anche la voce rendendola perfettamente priva di tono e artificiale. È evidente quindi come questo stesso mezzo tecnologico problematizzi il concetto di identità, mettendo in scena un mondo dove nulla è come sembra, e dove il dubbio si insinua a scardinare qualsiasi certezza il nostro protagonista, o dovremmo dire i nostri protagonisti, hanno. La narrazione emula anch’essa un comportamento schizofrenico, attraverso l’alternanza di capitoli non lineari, derive dentro agli stessi capitoli e questa permeante ambiguità della parola e del pensiero. Persino il cognome del protagonista è emblematico di tutto il discorso che Dick porta avanti per 278 densissime pagine: Arctor infatti come può non rimandare alla parola Actor?
Tema quanto mai attuale (così come un po’ tutta la narrativa e i nuclei tematici di Dick, dal concetto di anima nell’uomo, al rapporto uomo – macchina arrivando perfino alla messa in discussione della nostra concezione di realtà) nell’odierna società della rete, dove appunto internet sostituisce la droga come pretesto, e mezzo, di schizofrenia identitaria. Dove ognuno può effettivamente apparire ed essere ciò che vuole attraverso avatar digitali e profili creati appositamente ad hoc per restituire al mondo una precisa immagine di sé stessi, tutta da mettere in mostra. E in questo senso un abuso della comunicazione online, come l’abuso di droga, provoca assuefazione ed è un attimo ritrovarsi a galleggiare in qualcosa che un tempo chiamavamo vita, inconsapevoli che ormai tutto ciò che perseguiamo è qualcosa che non ci appartiene veramente per usare una frase del romanzo:“Quando un certo errore comincia a essere commesso da un bel po’ di persone, allora diviene un errore sociale, uno stile di vita. E in questo particolare stile di vita il motto è: “Sii felice oggi perché domani morirai”; ma s’incomincia a morire ben presto e la felicità è solo un ricordo.”
Insomma, si tratta di un viaggio attraverso cui mettere alla prova la propria autodeterminazione e la percezione che abbiamo di noi stessi, magari per scoprire alla fine qualcosa che prima ignoravamo completamente.
Articolo scritto da: Riccardo Dellai
