LE IMMAGINI SONO DAVVERO COSÌ IMPARZIALI?

Siamo ormai immersi nelle immagini, perennemente presenti in qualche forma nel nostro campo visivo, le immagini hanno raggiunto un tale grado di pervasività da far sentire più la loro assenza che non la loro presenza: ormai non ci si rende conto di stare guardando un’immagine, ma al contrario si percepisce come strana la loro mancanza. Da quando sono state introdotte le macchine ottiche (fotografia, cinema e televisione) l’immagine tecnica, e successivamente quella digitale, ha avuto un’esponenziale diffusione, e ha assunto lo statuto di immagine reale, effettiva riproduzione di ciò che ci circonda, ma è davvero così?

Nel XVIII secolo, prima che fossero effettivamente prodotte le prime tecnologie ottiche e condotti i primi esperimenti fotografici, la rappresentazione della realtà era affidata ad artisti e pittori, o comunque alla mano di un essere umano. Da ciò risultava evidente a tutti che quell’immagine avrebbe rispecchiato grosso modo il sistema di valori e credenze del suo autore, sottolineando quindi in un certo qual modo l’arbitrarietà della stessa.

Ma con l’introduzione della macchina tecnica le cose cambiano. Questi nuovi dispositivi tecnologici sono in gradi di vedere indipendentemente dall’occhio umano, e risultano talmente autonomi in questa loro facoltà da essere assimilati tout court alla rappresentazione oggettiva della realtà.  Non vi è dubbio che le immagini prodotte da queste macchine di riproduzione della realtà siano in sé stesse una conferma della solidità del reale, della sua concretezza. Ma il problema sussiste quando queste immagini (che siano fotografiche o cinetelevisive) assurgono a registrazioni totalmente oggettive, documenti che fanno vedere proprio tutto quello che era possibile vedere in quel luogo e in quel dato momento. Ma in realtà ciò che una fotografia, un film, o una trasmissione televisiva riesce a far vedere oppure no, è qualcosa determinato in via preliminare dalla sua tecnologia, oltre che dal tipo di organizzazione del lavoro di cui questa è espressione. L’obbiettivo della macchina, perciò, non è uno strumento di per sé neutrale, ma un artefatto umano concepito e costruito per permettere la trascrizione del reale come un’immagine accettabile.

Proprio a causa di questa finta oggettività, si è dimenticato che anch’essa ha dei forti elementi di esclusione della realtà, e di arbitrarietà nella scelta del cosa mostrare. È colui che utilizza lo strumento a determinare cosa mostrare, nascondere, sottolineare, come rendere determinate sensazioni, guidando – o meglio obbligando – il fruitore a prendere per buona la sua costruzione. Ormai alla logica della riproduzione verosimile e oggettiva si è sostituita quella, più complessa, della finzione verosimile e oggettiva.  Per non parlare poi del digitale che, oltre a modificare a proprio piacimento un’immagine reale, permette persino di crearne dal nuovo, che non hanno più nemmeno una referenza nella nostra realtà, dei veri e proprio simulacri, costruzioni fatte di 0 e di 1, togliendo definitivamente quella parvenza di almeno parziale verosimiglianza all’immagine. Non bisogna mai dimenticare che tutto ciò che si guarda, e non solo, è opera di qualcuno. Non esiste la neutralità assoluta o l’imparzialità verso una rappresentazione di qualsivoglia genere, proprio per il sistema di credenze dell’artefice, che non può fare a meno di traferire nella sua opera. Prima di prendere come unica e assoluta verità un’immagine è sempre necessario chiedersi: cosa c’è dietro quell’immagine?

Articolo scritto da: RICCARDO DELLAI

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