LA MALEDIZIONE DELLA PERENNE DISPONIBILITÀ NEL CONTEMPORANEO

Lo sfruttamento lavorativo oggi è condannato da tutti i fronti, le nuove tecnologie e il progresso hanno reso possibile un indubbio miglioramento di quasi tutte le realtà lavorative, perlomeno occidentali. Ma siamo sicuri che questo miglioramento tecnologico abbia avuto solamente un miglioramento della condizione del lavoratore? È vero che solo in paesi sottosviluppati ci sia un eccessivo sfruttamento della forza lavoro?

È ovvio, e fuori di ogni dubbio che la situazione peggiore in senso assoluto se la stiano vivendo tutti quelle regioni altamente sfruttate per il basso costo d’impiego e la quasi totale assenza di una qualsivoglia tutela lavorativa, ma utilizzando un occhio più critico emerge che anche la nostra realtà occidentale non sia solo rosa e fiori, ma che al contrario sottenda al di sotto della superficie idilliaca, una realtà più subdola e ambigua.

A questo proposito sono infatti già stati scritti numerosi saggi e interi libri. Grandi pensatori e studiosi hanno elaborato una grande quantità di materiale sull’argomento, ponendo l’attenzione su quanto la situazione che stiamo vivendo non sia proprio ciò che appare.

Mai come oggi l’individuo è costretto a vivere in una situazione di costante disponibilità, al lavoratore è richiesto di diventare controllore di sé stesso, il che non lo libera affatto dalle attenzioni di controllori esterni di vario tipo. Questo monitoraggio, sia esterno che individuale, continuo è strettamente legato alla precarietà, proprio a causa della enorme quantità di occhi puntati su di lui, l’individuo è perennemente in bilico e in lotta al fine di mantenere le migliori performance ed essere superiore ai suoi competitors.

E il lavoro precario presenta intrinsecamente una richiesta al contempo ironica e angosciante: da un alto il lavoro non finisce mai; dall’altro il lavoratore precario è del tutto sacrificabile, anche dopo aver sacrificato la propria autonomia per mantenere il lavoro. Risulta evidente da ciò come, mai quanto oggi, l’individuo risulti (non sempre ma nella gran parte delle volte e situazioni) quasi al pari di una semplice macchina che svolge un compito, e se non adempie in modo ottimale e sempre efficiente a quest’ultimo, urge reperire una macchina migliore e più efficiente.

Un ulteriore problema emerge proprio dalla dinamica sopra descritta. Questo se consideriamo la società contemporanea come una società della prestazione, interamente dominata dal verbo potere, cosa che effettivamente è nella sua preponderanza. Come imprenditore di sé stesso, il lavoratore, o soggetto di prestazione è libero dal momento che nessuno idealmente lo comanda, ma in realtà non è libero, perché egli sfrutta sé stesso del tutto volontariamente. Lo sfruttatore è lo sfruttato. L’autosfruttamento è molto più efficace dello sfruttamento estraneo, perché si accompagna a un sentimento di libertà. Lo sfruttamento diventa così possibile anche senza dominio.

L’intensità e la precarietà di questa cultura lavorativa tardocapitalista getta l’individuo in una condizione al tempo stesso di sfinimento e sovrastimolazione. Si crea così un’apparente situazione quasi ideale, senza brutture e dove l’individuo è totalmente libero e autonomo, che però risulta del tutto fittizia, solamente una facciata. Bisogna sempre interrogarsi sulla propria effettiva condizione, e soprattutto riflettere su ciò per cui si sacrifica tutto quel tempo. È davvero sacrificandoci quasi totalmente senza neanche rendercene conto che vogliamo vivere la nostra vita? Come diceva Goethe: «Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo».

Articolo scritto da: RICCARDO DELLAI

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