Il secondo film come regista di Jordan Peele è un puntuale ritratto surrealista della società di oggi, tra allegorie pompose e verità neanche troppo celate, porta in scena ciò che oggi è il solo e unico capo supremo: il pensiero capitalista.

Il paradigma tardocapitalista, ancora o ormai, imperante nella società odierna, impone una crescita continua, un’estensione senza limiti né confini. L’unica cosa auspicabile è la crescita, a dispetto di tutto il resto, nonostante questo peso gravi tutto sulle spalle di chi non fa parte di quel 20% che detiene l’80% della ricchezza mondiale. Questo processo degenerativo più che generativo è ancora celebrato come mezzo salvavita, per ritornare coi piedi per terra sarebbe utile ricordare che anche le cellule tumorali sono in continua espansione.
L’individuo diviene un burattino, come i doppi nel film, e come i conigli bianchi diviene un’animale sacrificale.
In questo il film riesce in modo molto efficace a mettere in scena questa dinamica con questo doppio filo. La nostra presunzione offusca qualsiasi altra prospettiva, da fortunata minoranza nata nella ricchezza e nel benessere, nella nostra testa diveniamo quasi meritevoli di ciò che possediamo, la casualità si trasforma in merito. Esemplare di ciò è la scena iniziale del film: nel luogo di massima espressione della frivolezza, portata peraltro avanti per tutta la durata del film dai dialoghi tra i personaggi, spensieratezza e del divertimento ultimo, ovvero il luna park, la protagonista entra in contatto per la prima volta con ciò che appunto si cela dietro tutto quel mondo di luci e meraviglia, un non-luogo che non è più solo tale ma è diventata una realtà condivisa, dove altro non esiste se non NOI. Non solo non riconosciamo più l’altro, nel suo essere diverso da noi, altro a noi appunto, ma lo dimentichiamo volontariamente, lo rimuoviamo dalla nostra coscienza, eliminiamo completamente la complessità del reale in favore di soluzioni e risposte semplici, utili a farci sentire bene a posto con noi stessi. E forse è anche questo a rendere così terrificante il film: sapere che c’è qualcuno tanto simile a noi da poter rivendicare la nostra posizione da vampiri che ciecamente presumiamo ci appartenga di diritto.
I doppelganger invadono il mondo proprio per questo: tagliare letteralmente, con le loro forbici, questo legame tra sfruttati e sfruttatori, tra fortunati e sfortunati. Il verso di Geremia 11:11 “Perciò così parla l’eterno: Ecco io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò” potrebbe tranquillamente diventare: “Così loro fingono di non comprendere, così io manderò loro ciò che fanno finta di non vedere, e io non li ascolterò”.
Altro tema capitale trattato nella pellicola è quello del doppio, del doppelganger che si cela in ognuno di noi. Sia come doppio interiore, identitario, che come doppio fisico, esperito nell’altro, nel diverso. La molteplicità è intrinseca alla natura dell’essere umano, ovvero l’indeterminazione come caratteristica fondante dell’individuo. Ma ormai l’uomo è lontano anni luce dall’istintualità animale, la disconosce quasi totalmente come cellula primordiale dell’attuale coscienza umana.
Lo stesso Jordan Peele in un’intervista afferma: “L’uomo è quell’abominio che si colloca tra scienza e religione”.
Per lui è inevitabile indossare maschere, le indossiamo costantemente per presentarci di volta in volta davanti a qualcuno, indossandone sempre di differenti. Così come il bambino, Jason/Pluto, anche noi ci nascondiamo costantemente dietro una maschera, in modo più o meno conscio.
Tra queste maschere ne rientrano di sordide e non così positive come vorremmo sempre e comunque credere. Impossibilitati così ad accettare, e soprattutto conoscere noi stessi in modo oggettivo, obnubilati dalla nostra sentimentale autoconcezione, continuiamo a vagare.
Come dice il filosofo Byung Chul Han: “Essere guardato costituisce l’aspetto centrale dell’essere nel mondo. Il mondo è lo sguardo (dell’altro)”. Questa autocoscienza di indeterminatezza e molteplicità è fondamentale per avere una convivenza serena con l’identità, propria e altrui. Nella scena del primo incontro della bambina con il suo alter ego, che rimanda al dipinto di Magritte La riproduzione vietata, mostra proprio questo. Sperimentare il vedersi attraverso lo sguardo dell’altro, ritrovando un’immagine che per nulla combacia con ciò che ci si aspetta di osservare, ma che in qualche modo capiamo appartenerci.

Articolo scritto da: RICCARDO DELLAI
